L’indipendenza del giurista, fondamento della credibilità e della tenuta dell’intero sistema giudiziario, sembra oggi più che mai minacciata da interventi normativi che rischiano di trasformare la professione legale in un mero servizio commerciale.
Le recenti riforme, orientate a eliminare i minimi tariffari, a incentivare il patto di quota lite e a prevedere una maggiore ingerenza statale nella remunerazione degli avvocati, sollevano interrogativi sulla tenuta del mandato etico del giurista. Se da un lato tali misure vengono presentate come strumenti di modernizzazione e accessibilità alla giustizia, dall’altro si insinuano dubbi profondi sull’effetto che potrebbero avere sulla libertà professionale degli operatori del diritnza
Lo Stato come arbitro e controparte
Uno dei nodi centrali è la possibilità per lo Stato di retribuire direttamente gli avvocati, specie nel contesto della difesa d’ufficio. Se il principio di garantire un’assistenza legale anche ai meno abbienti è sacrosanto, il rischio è che lo Stato, da regolatore della giustizia, si trasformi in un burattinaio che finanzia e controlla sia l’accusa che la difesa, con evidenti pericoli per l’equità processuale.
L’abolizione dei minimi tariffari: una falsa libertà
L’idea di eliminare i minimi tariffari è spesso presentata come un’opportunità per aumentare la concorrenza e favorire i giovani avvocati. Ma questa logica di mercato, che funziona per i beni di consumo, non può essere applicata alla giustizia senza snaturarne il senso. Il rischio concreto è una corsa al ribasso che spinge i professionisti a svilire il proprio ruolo, con effetti devastanti sulla qualità della tutela legale.
Patto di quota lite: quando il diritto diventa business
Forse la questione più spinosa è la crescente accettazione del patto di quota lite, ovvero la possibilità per l’avvocato di essere remunerato solo in caso di vittoria della causa, con una percentuale sugli utili ottenuti dal cliente. Questa pratica, vietata per lungo tempo, mina alle fondamenta l’indipendenza dell’avvocato, trasformandolo in un imprenditore del diritto più che in un difensore della giustizia. Se la retribuzione di un avvocato dipende direttamente dal risultato economico della causa, il rischio di strumentalizzazioni e contenziosi pretestuosi cresce esponenzialmente.
L’avvocato-mercante e la giustizia-spettacolo
In un sistema in cui gli avvocati devono promuovere aggressivamente i propri servizi per sopravvivere, il rischio è che la giustizia diventi un business guidato dalla pubblicità e dal sensazionalismo, piuttosto che dalla ricerca della verità e della corretta applicazione del diritto. La degenerazione del ruolo del giurista in un venditore di cause può portare a un’erosione del senso di appartenenza alla professione e alla deontologia, con ripercussioni pericolose sulla qualità della giustizia offerta ai cittadini.
Difendere l’indipendenza: una battaglia necessaria
L’indipendenza del giurista non è un privilegio corporativo, ma una garanzia per tutti i cittadini. Un avvocato autonomo è un avvocato che può difendere il suo cliente senza pressioni indebite. Un giudice indipendente è un giudice che può applicare la legge senza condizionamenti esterni. Un notaio libero è un garante della certezza giuridica nei rapporti tra privati. Se questi equilibri si spezzano, non è solo la professione forense a perderne, ma l’intera collettività.
La regolamentazione delle tariffe, il mantenimento del divieto di patto di quota lite e un sistema di compensazione che garantisca la dignità economica degli avvocati senza trasformarli in dipendenti dello Stato sono tre pilastri da difendere con fermezza. Il rischio di un avvocato-mercante, di un giudice-burocrate o di un notaio-imprenditore non è più un’ipotesi astratta, ma una deriva concreta che deve essere contrastata con decisione.
La giustizia non è un mercato, e il giurista non è un venditore: è tempo di riaffermare questi principi prima che sia troppo tardi.
Avv. Carlo Testa