Processo “Bad Cheque”, calano i titoli di coda dopo undici anni: quattro condanne e cinque assoluzioni

Foto di KATRIN BOLOVTSOVA

LECCE – A tarda sera dopo dieci ore di camera di consiglio e un’aula tesa, si è chiuso il lungo processo “Bad Cheque”, nato da un’inchiesta della Procura antimafia leccese su un presunto giro di usura ed estorsioni legato all’attività dell’Istituto Popolare Salentino, con sede ad Aradeo. Undici anni di dibattimento, due procedimenti riuniti, accuse gravi e numerose parti civili hanno trovato il loro epilogo davanti alla seconda sezione collegiale del Tribunale di Lecce, presieduta dalla giudice Bianca Todaro: quattro le condanne, cinque le assoluzioni.

A finire condannati, per usura ed esercizio abusivo del credito, sono stati: Massimo Minerba (6 anni e 6 mesi), Antonio Minerba (5 anni e 6 mesi), Aurora Pepe (7 anni e 6 mesi) e Roberto Giuri (8 anni). Tutti erano dipendenti dell’I.p.s. all’epoca dei fatti. Il collegio ha inoltre disposto la confisca dei beni oggetto delle attività usurarie e ha sancito il non luogo a procedere per i reati, ormai prescritti, di associazione a delinquere ed estorsione.

Non hanno invece commesso il fatto, secondo i giudici, gli altri cinque imputati: Lorenzo Bianco, Giuseppe Colazzo, Michele Orlando, Anacleto Agostino Imperiale e Anna Maria Catalano. Per Carmine Minerba, storico rappresentante legale dell’istituto e 93enne all’epoca della contestazione, è stato dichiarato il non luogo a procedere per sopravvenuto decesso.

Il processo si è retto anche sulla robusta azione difensiva degli avvocati Giuseppe Corleto, Luigi Greco, Andrea Starace, Giancarlo Raco, Ubaldo Macrì e Fabio Mariano, che hanno già annunciato ricorso in appello contro le condanne.

Secondo la ricostruzione della Procura, tra il 1987 e il 2014 l’I.p.s. avrebbe erogato prestiti a tassi che superavano in alcuni casi il 400% annuo, sfruttando imprenditori in crisi nei comuni del basso Salento. Il meccanismo si fondava sullo sconto di assegni post-datati e sulla successiva richiesta di nuovi titoli a copertura, in un circolo vizioso di debiti e minacce. Alcune vittime, indotte a firmare “richieste di finanziamento societario”, sarebbero state convinte che si trattasse di depositi, mentre i fondi venivano reinvestiti nel giro usurario.

Nel 2014, l’inchiesta aveva portato a quattro arresti domiciliari e al sequestro di beni per 10 milioni di euro. Oggi, con la sentenza, si chiude uno dei più lunghi procedimenti economico-giudiziari del territorio salentino.

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