La Patria si cancella un cartello alla volta

Roma cancella Via Nazionale per sostituirla con Via della Costituzione. Un fatto apparentemente minore, l’ennesimo cambio di toponomastica, rivela la patologia ormai cronica della sinistra italiana: l’incapacità di governare il presente si traduce nell’ossessione di riscrivere il passato.
Via Nazionale, voluta da Umberto I per collegare la stazione Termini al cuore della nuova capitale, nacque come simbolo tangibile dell’unificazione italiana appena compiuta.
Proprio questa arteria, testimone materiale del nostro Risorgimento, è ora nel mirino dei nuovi censori.
I consiglieri di Roma Futura – gli stessi che non riescono a liberare la capitale dai rifiuti – hanno trovato il tempo di redigere una mozione per eliminare un nome “troppo di destra”.
Mentre i bus non passano, le strade si allagano e le buche si moltiplicano, i consiglieri di sinistra trovano il tempo per riscrivere i cartelli. Pare che l’aggettivo “nazionale” contenga in sé germi pericolosi, una sorta di virus ideologico da cui proteggere i cittadini ignari. La stessa amministrazione che non garantisce trasporti funzionanti si erge a “tribunale linguistico” della memoria collettiva.
Questa è la stessa sinistra che si straccia le vesti per la “partecipazione dal basso” mentre impone dall’alto come i romani debbano chiamare le strade su cui camminano da generazioni. Gli stessi che invocano il rispetto delle minoranze calpestano senza remore la maggioranza silenziosa che nella parola “nazionale” non vede fantasmi ma semplicemente un riferimento geografico.
Il paradosso raggiunge vette vertiginose quando si considera che l’adiacente Piazza Esedra, ufficialmente rinominata Piazza della Repubblica, continua dopo decenni a essere chiamata con il suo nome storico dai romani.
E non è caso isolato: Piazza Buenos Aires resta “Piazza Quadrata” nell’uso quotidiano, così come Piazza Walter Rossi – intitolata a un militante di sinistra – rimane testardamente “Piazza Igea” sulle labbra dei cittadini.
Questa “resistenza linguistica” non è folklore o semplice abitudine: è la difesa spontanea di una geografia emotiva che si radica nell’esperienza vissuta, nei ricordi familiari, nell’identità dei quartieri.
I romani – come tutti gli italiani – si orientano attraverso riferimenti condivisi costruiti in generazioni, non attraverso decreti calati dall’alto. Lo stesso accadrà inevitabilmente con Via Nazionale, a riprova della distanza siderale tra chi amministra e chi abita realmente la città.
Non è casuale che queste proposte provengano dagli stessi ambienti di sinistra che tentarono di spostare la Madonna di Piazza Cimone, di smantellare Via dei Fori Imperiali e di rimuovere l’obelisco del Foro Italico. Il filo conduttore è sempre lo stesso: la cancellazione selettiva della memoria storica come surrogato di una visione politica ormai esaurita.
La vera emergenza democratica non è nei cartelli stradali, ma in questa pulsione iconoclasta che, incapace di costruire futuro, si accanisce sui simboli del passato.
In un’epoca in cui l’identità nazionale è già minacciata da globalismi omologanti e modelli culturali importati, aggredire il patrimonio simbolico del nostro linguaggio urbano è un gesto che somiglia più a una resa che a una riforma.
Una politica che riduce la sua azione al cambio dei nomi delle vie è una politica morta, che scambia l’amministrazione della cosa pubblica con l’esorcismo dei propri fantasmi ideologici.
Mentre i romani affrontano una quotidianità fatta di servizi inefficienti, trasporti al collasso e degrado urbano, la loro classe dirigente combatte contro i mulini a vento della toponomastica. Il diritto dei cittadini a una città funzionale viene immolato sull’altare della purificazione linguistica.
La città eterna merita amministratori capaci di guardare al futuro, non “guardiani del politicamente corretto” che gettano nella polvere secoli di storia per un’effimera approvazione ideologica.
Se l’etimologia di “nazione” risulta indigesta agli odierni censori, sarà bene ricordare loro che anche la parola “civiltà” ha radici profonde. E la civiltà inizia dal rispetto della memoria condivisa.

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