Amianto: La tutela previdenziale e risarcitoria

L’asbesto (dal greco ἄσβεστος, prop. inestinguibile composto da ἄ privativo e tema di σβέννυμι ovvero spegnere ciò che ha quindi proprietà di rimanere inconsunta nel fuoco) e il suo sinonimo amianto (da ἀμίαντος, ovvero ‘incorruttibile’ composto anch’esso da ἀ privativo e tema di μιαίνω ‘corrompere’) indicano tutti quei minerali, silicati fibrosi, che si suddividono in fibre sempre più sottili, che, sospese, possono essere inalate con gravi danni per la salute. Sono contenute anche nell’acqua potabile quando gli acquedotti sono in cemento amianto, perché realizzati prima dell’entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, che ne ha vietato l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione. Questi minerali si distinguono in anfiboli (amosite, crocidolite, antofillite, tremolite e actinolite) e serpentino (di cui fa parte il crisotilo, anch’esso cancerogeno). Anche questa distinzione è di carattere generale, senza rispettare la specificità mineralogica, che li distingue anche con riferimento alla singola miniera e luogo di estrazione.

Questi minerali di amianto hanno capacità infiammatoria, e quindi di generare fibrosi, in particolare asbestosi, ispessimenti pleurici e placche pleuriche; e cancro, tra i quali il mesotelioma, rispettivamente della pleura (93% dei casi), poi del peritoneo (5%), della tunica vaginale del testicolo (1%) e del pericardio (1%), e ancora tumore del polmone, multifattoriale, e anche con effetti sinergici degli altri cancerogeni, della laringe e delle ovaie, con unanime consenso scientifico, e altre neoplasie, per le quali pur con la presenza di contrasti, sono evidenti i dati epidemiologici che depongono per la conferma del nesso di causalità[1].

L’OMS (World Health Organization – WHO) ha pubblicato la sua stima (‘Asbestos[2] – 27 settembre 2024):

“All forms of asbestos, including chrysotile, are carcinogenic to humans.

Systematic review evidence indicates that a substantial proportion of manual workers in the construction industry globally are exposed to asbestos.

Globally, more than 200 000 deaths are estimated to be caused by occupational exposure to asbestos – more than 70% of all deaths from work-related cancers.

The use of asbestos has been prohibited in more than 50 WHO Member States”.

Questi nuovi dati sono più aderenti a quelli effettivi, rispetto alle precedenti indicazioni, tant’è che si avvicinano molto alle valutazioni dell’Osservatorio Nazionale Amianto – ONA APS. In Italia sono censiti soltanto i casi di mesotelioma, oggetto di pubblicazione del Registro Nazionale, che raccoglie i dati dei COR Regionali. Per il 2024, si stima che siano stati diagnosticate circa 10.000 malattie asbesto correlate e che si siano verificati 7.000 decessi, di cui circa 2.000 solo per mesotelioma. Solo 69 Paesi nel mondo hanno posto divieto all’uso di amianto[3]. Perciò, è indispensabile la bonifica dei siti contaminati, oltre alla determinazione di bando internazionale dell’amianto, anche con il divieto di commercializzazione dei prodotti [da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio]. Solo così sarà possibile evitare le future esposizioni e vincere definitivamente la nostra battaglia contro l’amianto.

LE TUTELE PREVENTIVE E RISARCITORIE

I minerali di amianto sono stati largamente utilizzati per il loro basso costo, facilità di estrazione e soprattutto per le loro capacità ignifughe, fonoisolanti e di resistenza, compresa quella alla trazione, che hanno reso l’asbesto un materiale per tutte le attività, comprese quelle commerciali e di trasporto, oltreché edili e militari. Tuttavia, è stata trascurata (occultato) l’altra faccia della medaglia, il peso e il prezzo del progresso (e del profitto di pochi, come i proprietari della multinazionale Eternit, che ha avuto sede anche in Italia con ben cinque stabilimenti).

Coloro che oggi si ammalano, e in molti casi purtroppo muoiono, sono stati gli stessi che hanno subito le esposizioni in passato, decenni, anche fino a 50/60 anni, perché le fibre rimangono nel corpo umano per tutta la vita e inducono prima infiammazione e poi cancro. Non esistono specifiche terapie in grado di arrestare i cancri di amianto, e l’unico strumento è la prevenzione primaria, nel rispetto dell’art. 32 della Costituzione, evitando ogni forma di esposizione ad amianto, a prescindere dalla dose e soglia (che è solo di maggior allarme). Così, è fatto divieto di esposizione ad amianto, tant’è che in sede comunitaria si è sancita la riduzione delle soglie a 10 ff/ll all’esterno e a 0,2 ff/ll all’esterno [Direttiva (UE) 2023/2668 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 novembre 2023, che modifica la direttiva 2009/148/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro; in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 29.01.2024, 2° Serie Speciale, n. 8, pag. 98 e ss.].

Così, nell’art. 9 della Costituzione, si afferma: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Così, l’art. 41 della Costituzione: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali” [art. 41, 2 e 3 co., Cost.].

Così dunque, il quadro è chiaro, in relazione all’art. 32 della Costituzione perché si disponga una efficace applicazione della normativa di riferimento, anche per la bonifica dei siti contaminati e dell’amianto anche nei luoghi di vita e di lavoro, mettendo fine così a queste esposizioni, che in caso contrario alimenterebbero la prosecuzione dell’epidemia di malattie asbesto correlate in Italia, il tutto in modo altresì coerente con la legislazione comunitaria.

LA TUTELA PREVENTIVA NEGLI AMBIENTI DI LAVORO

Il maggior impatto dell’amianto sulla salute è dovuto al suo utilizzo come materia prima fino all’entrata in vigore dell’art. 1 della L. 257/92 (aprile 1993), e del successivo ritardo nella bonifica, ovvero rimozione, incapsulamento e confinamento dei materiali già posti in opera [la normativa non impone il divieto di uso del materiale già posto in opera, né impone la bonifica, se non in caso di elevato indice di friabilità]. Ciò ha determinato una certa ambiguità, che tuttavia è stata risolta nel senso favorevole alle esigenze di tutela della salute, con il divieto di esposizione sussistente a prescindere dalla dose e soglia, anche prima dell’entrata in vigore della L. 257/92 [sul punto v. la più recente Cass., Sez. Lav., (data ud. 27/02/2024) 16/05/2024, n.13594][4]. Ne discende che la posizione del datore di lavoro è quella di garante per il fatto della “presa in carico” (così sent. Cass. Pen., Sez. IV, 4 novembre 2010, n. 38991, p. 37) nel rispetto dei principi costituzionali e anche dell’art. 2087 c.c., e quindi con la cogenza delle misure di cautela – da quelle specifiche fino all’art. 2087 cod. civ., integrato dagli artt. 4, 19, 20 e 21 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (norme di prevenzione tecnica) e quelle di cui agli artt. 377 e 387 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (norme di protezione individuale), e poi, nel tempo, dal d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e, ancora, d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, e tutte quante trasfuse nel d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81- costituiscono gli obblighi a carico del datore di lavoro, non eludono il principio, né escludono la responsabilità e l’obbligo di risarcimento del danno (così, Cass., Sez. Lav., 10 giugno 2019, n. 15561).

L’obbligo di tutela della salute impone innanzitutto di rimuovere alla radice ogni situazione di rischio, che, concretizzandosi, determina infortuni o malattie professionali, come quelle asbesto correlate, che sono malattie infortunio (Cass. Pen., Sez. IV, 12 novembre 2019, n. 45935).

Perciò, la chiave di lettura è quella necessariamente preventiva sotto il profilo informativo, tecnico e di dispositivi di sicurezza individuali, per evitare l’esposizione, se non del tutto almeno riducendola enormemente, in un’ottica che deve rispecchiare l’esigenza già insita negli artt. 437 e 434 cod. pen., e successiva legislazione di cui al d.lgs. 22 maggio 2015, n. 68 (con cui sono state integrate le fattispecie penali), e del d.lgs. 09 aprile 2008, n. 81 ed in altre leggi speciali. Perciò, è rilevante che si assicuri quel “complesso delle condizioni, garantite dall’ordinamento giuridico, che costituiscono la sicurezza della vita, dell’integrità personale e della sanità, come beni di tutti e di ciascuno, indipendentemente dall’appartenenza a determinate persone” (MANZINI, Trattato di Diritto Penale Italiano. Volume 6, 1960), che è l’esigenza principe e costituzionalmente orientata, che la bussola ribadita anche dalle più recenti modifiche degli artt. 9 e 41. Pertanto, la tutela giuridica non può che essere che in chiave preventiva, anche con l’uso del diritto penale in chiave contravvenzionale e con l’estinzione anche in caso di messa in sicurezza e adempimento delle prescrizioni, in assenza di danni alla salute del cittadino-lavoratore. Solo in questo modo, e non con l’indennizzo e il risarcimento, è possibile un’efficace tutela dei beni più preziosi, e quindi delle norme che rappresentano la loro trasposizione giuridica.

LE TUTELE PREVENTIVE SUI LUOGHI DI VITA

L bonifica e messa in sicurezza è fondamentale anche per gli edifici pubblici, e comunque per i luoghi di vita e di lavoro, tenendo presente che l’amianto può generare infiammazione e cancro anche a bassa dose. Proprio il fatto stesso che non sussistono soglie al di sotto delle quali il rischio viene meno impone la bonifica anche delle scuole e degli ospedali, delle vecchie unità navali della stessa Marina Militare e del trasporto civile, così esteso anche ai rotabili ferroviari. Perciò stesso, è rilevante evitare ogni forma di esposizione ad amianto anche negli ambienti di vita.

LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO PER DANNI DA AMIANTO

L’obbligo cautelare, violato il quale si configura la responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c. e/o 1218, 1223 e 1453 c.c., e poi quella extracontrattuale, tra cui ex art. 2050 c.c. e/o 2051 c.c., e aquiliana ex artt. 2043 e 2053 c.c. e civile da reato (ex art. 589 c.p., 590 c.p., con riferimento ai criteri della responsabilità civile da reato, con applicazione delle regole civilistiche proprie della responsabilità contrattuale, nei termini di cui a Cassazione, Sez. Lav., sent. n. 12041/2020, capo 6.6.1), diretta e vicaria (artt. 1228 e/o 2049 c.c.), è ancorato sull’art. 2087 cod. civ.[5], e sulla normativa specifica, cui sopra si è già fatto riferimento, e comunque sugli obblighi di prudenza, diligenza e perizia, che impongono l’utilizzo della migliore tecnologia possibile per evitare l’esposizione o per abbatterla il più possibile [già Corte di Cassazione, Sez. Lav., 9 maggio 1998, n. 4721 e successiva giurisprudenza, cit. Cass., Sez. Lav., (data ud. 27/02/2024) 16/05/2024, n.13594].

L’EVENTO E IL NESSO DI CAUSALITA’

Il vero snodo in materia di tutela civilistico risarcitoria è costituito proprio dal giudizio di causalità. Perciò, già con la direttiva 2009/148/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro”, all’allegato 1 “Raccomandazioni pratiche per l’accertamento clinico dei lavoratori, di cui all’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma” recita: “In base alle conoscenze di cui si dispone attualmente, l’esposizione alle fibre libere di amianto può provocare le seguenti affezioni: asbestosi, mesotelioma, cancro del polmone, cancro gastrointestinale.

Il Governo italiano, nel “PIANO NAZIONALE AMIANTO”, approvato e  pubblicato nel marzo 2013, ha previsto che “prioritariamente vanno indagate le patologie correlate ad esposizione ad amianto, così come elencate nella monografia n. 100 della IARC e classificate nei gruppi I e II: tumore del polmone, della laringe, dell’ovaio, del colon retto, dell’esofago, dello stomaco”.

Un successivo studio prospettico di popolazione esposta in modo prolungato ad amianto ha dimostrato una più alta incidenza dei casi di cancro al colon, totale e distale, e del cancro rettale (Offermans NSM e collaboratori (Occupational asbestos exposure and risk of esophageal, gastric and colorectal cancer in the prospective Netherlands, Cohort Study (Int. J. Cancer: 00, 00–00 (2014) VC 2014 UICC).

Quindi, il Legislatore e la stessa giurisprudenza non può non recepire, a fronte della legge scientifica di copertura, l’evidenza della capacità lesiva dell’amianto, e dunque il giudizio di causalità dev’essere formulato sulla base della legge scientifica di copertura, esplicativa della causalità individuale, cioè di definire il giudizio su ogni singolo caso, secondo i criteri e gli standard probatori, più rigidi, in ordine alla responsabilità penale e del più probabile che non per quella civile[6]. Mentre in sede penale il nesso di causalità può essere affermato ove l’ascrivibilità dell’evento sia accertata ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ e, quindi, con la certezza processuale che deve essere raggiunta con l’elevata probabilità logica e credibilità razionale, anche su base abduttiva (si veda Cass., Sez. Un., 11 settembre 2002, n. 30328; Cass. Pen., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581; Cass. Pen., Sez. IV., 27 febbraio 2014, n. 9695 e, in materia di amianto, Cass. Pen., Sez. IV, 4 novembre 2010, n. 38991 e 13 dicembre 2010, n. 43786), in sede civile è invece sufficiente la probabilità qualificata ovvero la regola del c.d. ‘più probabile che non’ (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581, ed ex multis).

Debbono essere valorizzate tutte le prove, comprese quelle testimoniali, essenziali anche per escludere un decorso alternativo (Cass. Pen., IV Sez., 15 aprile 2020, n. 12151).

In più, sia in sede civilistica, che in sede penalistica, non può essere disconosciuto il principio della equivalenza causale, ovvero dell’equipollenza, che non entra in contrasto con l’oltre ogni ragionevole dubbio, ovvero con il ‘più probabile che non’. Perciò qualsiasi antecedente causale rileva sia ai fini della imputabilità penale, che di quella civile, alle condotte attive e omissive del datore di lavoro, ovvero delle persone fisiche (compresi tutti i componenti del consiglio di amministrazione – Cassazione, IV sezione, 4 novembre 2010, n. 38991).

Il nesso di causalità in sede civile è confermato se sussiste la «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”» (Cass. 16 gennaio 2009, n. 975; SS.UU., 11.01.2008, n. 581).

Il criterio della “preponderanza dell’evidenza” (o del “più probabile che non”), come affermato pacificamente anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 31.03.2016, n. 6222), anche sulla base dell’aumento del rischio e/o dell’anticipazione della latenza e/o della morte della vittima, quindi dell’equivalenza causale, ai sensi dell’art. 41 cod. pen. (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 21.09.2016 n. 18503). In sostanza, ogni antecedente causale, perfino in sede penale, implica la responsabilità per l’intero a carico di chi – persona fisica, ovvero datore di lavoro – ha contribuito all’insorgenza, ovvero all’accelerazione e/o abbreviazione dei tempi di latenza e dell’insorgenza e dell’anticipazione della data della morte.

LA COLPA

Proprio sulla base della legge scientifica di copertura, tenendo conto della capacità fibrotica e cancerogena delle fibre di amianto e del divieto di esposizione a prescindere dalla dose e soglia, per cui il cagionare l’esposizione ad amianto, in caso di danni, costituisce inadempimento, ovvero integra la responsabilità contrattuale, e allo stesso tempo, in via concorrente, anche quella extracontrattuale, senza che il responsabile possa invocare il mancato superamento del limite di soglia (cfr. Cass., Sez. Lav., 23 maggio 2003, n. 8204 e Cass., Sez. Lav., 14 gennaio 2005, n. 644).

Ciò che rileva è l’obbligo a carico del datore di lavoro di evitare ogni esposizione dimostrando poi di avervi adempiuto, ovvero che l’evento è riconducibile ad un decorso alternativo (Cass., Sez. Lav., 18 maggio 2011, n. 10935;                    in sede penale, Cass., Sez. IV, 14 gennaio 2003, n. 988; ancora Cass. Pen., Sez. IV, 27 agosto 2012, n. 33311), e comunque evitabile per effetto dell’adempimento delle regole cautelari, anche di comune prudenza (Cass., Sez. Lav., 14 gennaio 2005, n. 644).

Nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, il nesso risulta confermato in sede civilistica (e anche in sede penalistica) tutte quelle volte in cui risulta altamente probabile che l’esposizione professionale abbia quantomeno aumentato il rischio di insorgenza e/o anticipato i tempi di latenza e/o aggravato il decorso della patologia (Cass. Pen., Sez. IV, 09 maggio 2003, n. 37432, in Dir. prat. lav., 2003, 2758 e in Foro it., 2004, I, 69).

Si deve distinguere l’ambito penalistico da quello eminentemente civilistico, per il quale trovano applicazione le regole proprie della responsabilità contrattuale nel caso di danni nel corso del rapporto di lavoro, esteso anche alla responsabilità extracontrattuale.

In ogni caso, in chiave risarcitoria, è sufficiente la violazione delle regole cautelari, in rapporto alla negligenza, imprudenza e imperizia per la risaputa conoscenza e/o conoscibilità del rischio amianto, ai fini della configurabilità della fattispecie.

Il datore di lavoro «ha l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno», che costituiscono il suo obbligo contrattuale, in relazione alle norme di cui agli artt. 1218 e 1223 cod. civ. (Conforme: Cass., Sez. Lav., 13 maggio 2008, n. 11928, e Cass., Sez. Lav., 25 giugno 2008, n. 17309; Cass., Sez. Lav., 17 febbraio 2009, nn. 3786 e 3788; Cass., Sez. Lav., 02 luglio 2009, n. 18107; Cass., Sez. Lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; in linea con Cass., Sez. Un., 30 novembre 2001, n. 13533).

Gli obblighi cautelari specifici sono quelli di prevenzione tecnica (artt. 4 e ss. del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303), protezione individuale (artt. 377 e 387 e ss. del D.P.R., 27 aprile 1955, n. 547), e le ulteriori cautele di cui al d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, e del D.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, poi trasfuse nel d.lgs. 09 aprile 2008,  n. 81, e quelli ulteriori di cui all’art. 2087 cod. civ., in relazione alla «particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica», «necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» del prestatore d’opera (Cass., Sez. Lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; Cass., Sez. Lav., 11 luglio 2011 n. 15156; Cass., Sez. Lav., 14 aprile 2008, n. 9817; ed ex multis), il tutto rapportato alla pericolosità dei materiali utilizzati, e alla possibilità di utilizzare quelli sostitutivi privi di dannosità per la salute umana[7].

DANNI DA AMIANTO E INDENNIZZO INAIL

Il giudizio dell’INAIL circa l’origine professionale della malattia del lavoratore, ai fini del relativo riconoscimento di malattia professionale, si fonda, dunque, sulla riconduzione della patologia ad una di quelle tabellate dall’istituto.

L’INAIL indennizza il danno patrimoniale, per diminuite capacità di lavoro, e quello biologico, solo nel caso in cui il grado invalidante raggiunga il 16%, con una rendita mensile. Infatti, l’art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, prevede diverse tipologie di indennizzo INAIL in base alla percentuale di invalidità riconosciuta per la malattia professionale del lavoratore. In particolare, la rendita mensile vitalizia, esente da tassazione, che si ottiene nel caso in cui il grado invalidante non sia inferiore al 16%, con la possibilità di periodica revisione e l’indennizzo del danno biologico, ossia, la prestazione erogata per il danno biologico compreso tra il 6% e il 15%, tramite il versamento di una somma in capitale, che può essere adeguata in caso di aggravamento del danno una volta soltanto.

Occorre, poi, precisare che nel caso in cui il grado invalidante non raggiunga questa soglia (dal 6% al 15%), l’INAIL indennizza il solo danno biologico la cui quantificazione non tiene conto dell’integralità della lesione, con specifico riferimento ai profili dinamico-relazionali, e nessuna prestazione viene erogata laddove il grado di invalidità non raggiunga la soglia minima del 6%.

Tale sistema di indennizzi, inerisce solo agli eventi successivi al 25 luglio 2000, in quanto, con la disciplina previgente, l’INAIL erogava la rendita vitalizia per le menomazioni con inabilità permanente con grado compreso tra l’11 e il 100%.

Vige poi il sistema di reversibilità INAIL, in ordine al quale tali prestazioni, in caso di decesso del lavoratore, sono reversibili al coniuge superstite, ai figli e ad altri familiari.

In questa medesima prospettiva va ribadito anche il significato del riferimento

  • contenuto nell’art. 13, comma. II, lett. a), d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 – agli aspetti dinamico- relazionali del danno biologico indennizzabile, alla sussistenza di un danno differenziale quantitativo, e qualitativo, quindi il diritto all’integrale ristoro del pregiudizio non patrimoniale, che non può essere confinato nella sola prospettiva indennitaria.

Essa è, infatti, di per sé estranea alle direttive costituzionali del ristoro integrale e personalizzato del pregiudizio alla persona nella sua complessiva proiezione esistenziale. Ciò giustifica il fondamento delle domande di risarcimento del maggior danno, anche biologico, subito dalla vittima primaria, oltre che dai familiari; deve pertanto essere calcolato l’ulteriore importo dovuto a titolo di integrale risarcimento dei danni e quindi del differenziale (quantitativo e qualitativo), nel rispetto dell’omogeneità (e comparabilità) dei titoli risarcitori.

A tali prestazioni si aggiungono i cd. “Benefici contributivi”, ovvero il prepensionamento per esposizione ad amianto e pensionamento immediato. Il primo è previsto per i lavoratori che abbiano subito danni per l’esposizione alle fibre di asbesto, ai sensi dell’art. 13 comma settimo della L. 27 marzo 1992, n. 257 con diritto al prolungamento dell’anzianità contributiva pari al 50% del periodo di esposizione, oltre all’aumento dei ratei pensionistici. L’art. 13, comma ottavo della L. 27 marzo 1992, n. 257, conferma il beneficio anche qualora la malattia asbesto-correlata non sia stata ancora diagnosticata. Unico requisito è quello dell’esposizione ultradecennale all’amianto.

Il secondo invece, è accordato in caso di qualsiasi malattia asbesto-correlata, qualora i benefici amianto non siano sufficienti alla maturazione della pensione. Tuttavia, la pensione di inabilità per l’esposizione ad amianto richiede che il lavoratore sia in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 5 anni e il riconoscimento da parte dell’INAIL di una patologia asbesto-correlata di origine professionale.

IL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO DIFFERENZIALE CON SCOMPUTO PER POSTE OMOGENEE

Il lavoratore malato, ovvero gli eredi di quello deceduto, hanno diritto al totale risarcimento di tutti i danni, quelli patrimoniali e non patrimoniali, sofferti dallo stesso ma anche in proprio dagli stretti congiunti e da tutti coloro che avessero un significativo rapporto personale con la vittima (Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26973).

In punto di pregiudizi non patrimoniali essi non implicano solo la lesione biologica e psicobiologica di cui all’art. 32 Cost., ma investono la persona nella sua interezza, che viene straziata da sofferenze interiori, lesive della personalità e della dignità morale (artt. 2 e 3 della Costituzione). Tali effetti delle malattie asbesto correlate integrano, allora, non solo il c.d. danno morale, ma anche un vero e proprio danno alla vita familiare e sociale. Infatti, il rischio e il dolore di cui diviene vittima il lavoratore, ben possono essere condivisi dai suoi familiari, che in più occasioni hanno subito l’esposizione all’amianto, correndo il rischio, spesso realizzatosi, di ammalarsi (artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, che a loro volta sono concatenati con quelli di cui agli artt. 35, 36 e 41 comma secondo della Costituzione e non possono prescindere da quelli della Cedu e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, i quali ultimi rilevano ai fini della personalizzazione della loro quantificazione – così Cass. Civ., Sez. III, 02 febbraio 2010, n. 2352, che qui si intende riscritta).

Il lavoratore malato ha diritto al risarcimento del danno differenziale, secondo il criterio delle poste omogenee (così Cass., Sez. Lav., 10 ottobre 2019, n. 25618; Cass. Civ., Sez. Lav., 8 aprile 2019, n. 9744), con un metodo che, quindi, scomputa l’indennizzo dal danno biologico e dal danno patrimoniale per diminuite capacità di lavoro, con integrale ristoro di tutte le altre voci di danno.

In caso di decesso con liquidazione in favore degli eredi, legittimi e/o testamentari, sul presupposto del diritto all’integrale ristoro.

In particolare, dall’ammontare complessivo del danno biologico, deve essere detratto il valore capitale della sola quota della rendita INAIL tesa a ristorare danno biologico stesso e non il valore capitale dell’intera rendita, in forza dell’art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38. Infatti, la rendita INAIL si compone di due quote, di cui una mira a risarcire il danno biologico, mentre l’altra è rapportata alla retribuzione, oltre alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale, che deve essere esclusa dallo scomputo. Il giudice deve, allora, compiere l’operazione di calcolo, anche ex officio se l’INAIL non ha ancora provveduto all’indennizzo, detraendo dal risarcimento aquiliano solo la parte della rendita sociale attinente alle medesime poste risarcitorie, non rientranti nel risarcimento ex art. 2043 cod. civ.

Sia il lavoratore che ha contratto la patologia, sia i suoi famigliari hanno diritto al risarcimento del «danno biologico (cioè la lesione della salute), [di] quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili» (Cass. Civ., Sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4033).

La prova dell’entità del danno può essere anche presuntiva, posto che le certificazioni INAIL, essendo atti non autoritativi, possono assumere valore probatorio, così come i risultati dell’esercizio del potere di indagine del consulente tecnico di ufficio (Cass. Civ., Sez. III, 15 luglio 2009, n. 16471; Cass. Civ., Sez. III, 11 ottobre 2006, n. 21728; Cass. Civ., Sez. I, 28 gennaio 2010, n. 1901; Cass., Sez. Lav., 16 marzo 2015, n. 5174; Cass., Sez. Lav., 24 maggio 2017, n. 13024/2017 ed ex multis). Assumono allora rilevanza non solo lo sconvolgimento che i fatti lesivi provocano nella vittima primaria e nei familiari, la tipologia ed entità degli stati di invalidità del danneggiato (parametri dai quali già di per sé si può dedurre il livello “minimo presuntivo” di incidenza delle lesioni sul piano della “sfera morale” del danneggiato), l’attività lavorativa svolta, ma anche l’età, gli hobby e il sesso della vittima.

Inoltre, devono essere considerati anche gli aspetti legati al fatto che la vittima sia stata oggetto di un’ingiusta lesione della propria persona e della propria dignità umana, i disagi e i fastidi nello svolgimento delle attività quotidiane.

Infine, assumono rilievo la necessità di affrontare operazioni chirurgiche riparatrici, esami invasivi o terapie riabilitative, le perdite di tempo e le frustrazioni incorse in visite mediche, sedute riabilitative, accertamenti medico- legali, sessioni con i propri avvocati, oltre all’essersi trovato costretto ad affrontare dapprima un iter stragiudiziale e poi giudiziale, con tutti i relativi stress.

LA NON APPLICABILITÀ DELLA REGOLA DELL’ESONERO E IL DIRITTO ALL’INTEGRALE RISARCIMENTO DEL DANNO

I datori di lavoro continuano a difendersi invocando la regola dell’esonero di cui all’art. 10 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, oltre ad assumere la congruità della regola INAIL, per evitare la condanna al risarcimento dei danni differenziali e complementari.

Nell’impianto originario del T.U. INAIL, il danno differenziale rivestiva natura squisitamente patrimoniale, venendo in evidenza solo ove non operasse l’esonero del datore di lavoro, posta la sua responsabilità in merito all’evento occorso al lavoratore. Tuttavia, la regola dell’esonero ex art. 10 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 ha subito profonde modifiche in seguito all’evoluzione del concetto di danno biologico, ad opera di numerose pronunce della Consulta.

Infatti, l’indennizzo INAIL non copre tutti i pregiudizi, oltre al fatto che in ogni caso non riguarda tutti gli eredi e/o i famigliari della vittima. In particolare, debbono essere considerati i pregiudizi legati allo «sconvolgimento conseguente alla percezione della propria integrità violata», agli stress, fastidi, disagi, dispiaceri, infelicità, amarezze, imbarazzi, sentimenti di «rabbia», frustrazioni ed altre emozioni negative, per il riposo forzato. Non solo, la non accettazione del proprio stato comporta un turbamento e un «sentimento di lesa dignità» per il fatto di dipendere, temporaneamente o in via permanente, in tutto o in parte, dagli altri, anche per le funzioni più elementari della vita, dall’igiene personale sino all’espletamento delle più basilari funzioni corporali e al fatto di dover affrontare un iter legale per la tutela dei propri diritti, ecc.; a ciò si aggiungano l’amarezza che scaturisce dalla consapevolezza di non riuscire a stare accanto ai propri cari, familiari ed amici come prima della diagnosi della patologia, spaventi, angosce, timori e «prove negative della vita» causati dall’evento dannoso (per esempio, la preoccupazione per il fatto di aver corso o di dover affrontare un determinato potenziale o concreto pericolo per la propria salute o vita; tra i quali la paura per un ricovero, per un’anestesia, per un’operazione o per il dolore fisico); il futuro crea preoccupazioni e timori (ad esempio, per le sorti della propria famiglia, per la propria posizione sociale, per il rischio di perdere il lavoro o di non riuscire a concorrere come in precedenza sul mercato del lavoro – il che, di questi tempi, è un serio problema); ancora, i perturbamenti dell’animo, ossia di ogni pregiudizio “immateriale” – circoscritto nel tempo (transeunte) o destinato a permanere – derivante dalla alterazione in peius dell’integrità morale (ricordando qui una felice espressione utilizzata dalla Cassazione, della modifica negativa della «sfera dell’intimo sentire») e non suscettibile di «accertamento scientifico», che per nessun motivo e ragione possono essere ricompresi nei pregiudizi di cui alla rendita INAIL e che devono necessariamente essere risarciti autonomamente.

Allo stesso modo, i pregiudizi sofferti dai famigliari.

DANNO DA ESPOSIZIONE

Allo stesso modo deve essere risarcito il danno da esposizione, sia al lavoratore che agli eventuali congiunti, attesa la possibilità di una loro esposizione indiretta per la contaminazione dei loro cari impegnati nell’attività di lavoro in siti dove il minerale era stato utilizzato (Cass., Sez. Lav., 13 ottobre 2017, n. 24217).

Con la recente Cass. Pen., Sez. IV, 13 giugno 2019, n. 45935, è stato poi affermato il principio della sussistenza di un danno da infiammazione, ulteriore rispetto alle conseguenze morali ed esistenziali.

Le evidenze medico-scientifiche circa la presenza di ispessimenti e placche pleuriche in tutti i casi di mesotelioma, oltre alla consapevolezza che in ogni caso si verificano danni al DNA cellulare e al funzionamento della replicazione cellulare, fondano indubbiamente la condizione di preoccupazione e sofferenza, che talvolta sfociano in veri e propri disturbi fobici e post traumatici.

Inoltre, è ineludibile che il processo infiammatorio costituisca un danno organico già di per sé, provocando microlesioni nei capillari parenchima, favorendo l’insorgenza di ulteriori infezioni, affaticando in ogni caso il cuore, così inducendo danni al sistema cardiocircolatorio e cardiovascolare (c.d. cuore polmonare).

Il Tribunale di Pisa, Sezione Lavoro, con sentenza n. 153, pubblicata in data 27 gennaio 2017, ha confermato che per i lavoratori esposti che hanno contratto placche pleuriche ed ispessimenti pleurici e che hanno comunque paura di contrarre il mesotelioma, ovvero altra patologia tumorale, l’entità del risarcimento deve essere quantificata con un “aumento (anche in relazione all’art. 185 c.p.), considerando la particolare penosità connessa al continuo confronto che il ricorrente deve sostenere con l’eventualità di un decorso infausto del proprio stato di salute, anche perché il ricorrente è costretto a regolare i controlli medici con l’inevitabile rinnovazione, ogni volta, dell’apprensione circa il responso dei sanitari”.

Perciò, le tutele non possono non rispecchiare il concetto di salute più ampio, che è quello stabilito dall’OMS, secondo cui corrisponde ad «“uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”»,  che non può essere quindi circoscritto alla sola assenza di malattia, già manifestata, perciò stesso impone a maggior ragione di evitare tutte le esposizioni cancerogene che attivano il processo neoplastico multistadio, e soprattutto costituiscono lesione dei diritti fondamentali, compreso il pieno benessere, la capacità di organizzare il futuro della vita in famiglia e nella società.


[1]   IARC, Asbestos. Actinolite, amosite, anthophyllite, chrysotile, crocidolite, tremolite, 2012. IARC Monogr Evaluation Carcinog Risk Chem Man, Vol. 100C: https://publications.iarc.fr/_publications/media/download/6142/a42c8909dfe1e862d1a1a5736ad4e8fe7a8ba9f3.pdf, capitolo 5, pag. 294: “There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chry- sotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite, and anthophyllite). Asbestos causes mesothe- lioma and cancer of the lung, larynx, and ovary. Also positive associations have been observed between exposure to all forms of asbestos and cancer of the pharynx, stomach, and colorectum. For cancer of the colorectum, the Working Group was evenly divided as to whether the evidence was strong enough to warrant classification as sufficient.

There is sufficient evidence in experimental animals for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremo- lite, actinolite and anthophyllite).

There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of talc containing asbestiform fibres. Talc containing asbestiform fibres causes cancer of the lung and mesothelioma.

There is inadequate evidence in experimental animals for the carcinogenicity of talc containing asbestiform fibres.

All forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite and anthophyllite) are carcinogenic to humans (Group 1)”.

[2] WORLD HEALTH ORGANIZATION, Asbestos, 2024, link: https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/asbestos#:~:text=Globally%2C%20more%20than%20200%20000,than%2050%20WHO%20Member%20States

[3] ROBERT L. VIRTA, 2013 Minerals Yearbook, U.S. Department of the Interior. U.S. Geological Survey, 2015. Nel 2014, la Russia ne ha estratto circa 1.100.000, la Cina oltre 400.000, il Brasile circa 284.000, il Kazakhstan 240.000, l’India 270.000, e tra gli utilizzatori la Russia (608.000), la Cina (507.000), l’India (379.000), il Brasile (154,000) ed il Kazakhstan (68.000), come risulta dal sito http://www.ibasecretariat.org/, consultato in data 27.08.2015. Concha-Barrientos M, Nelson D, Driscoll T, Steenland N, Punnett L, Fingerhut M et al. Chapter 21. Selected occupational risk factors. In Ezzati M, Lopez A, Rodgers A, Murray C, editors. Comparative quantification of health risks: global and regional burden of disease attributable to selected major risk factors. Geneva: World Health Organization; 2004:1651–801 (http://www.who.int/healthinfo/global_burden_disease/cra/en/, accessed 11 March 2014).

[4] Si fa rimando a tale ultima pronuncia, che contiene una specifica disamina di tutta la giurisprudenza della Suprema Corte, ormai granitica in questi termini.

[5] Art. 2087 cod. civ.: «Secondo (…) costante giurisprudenza (…) l’articolo 2087 c.c., come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore» (Cass. 18 novembre 1976, n. 4318, Cass., Sez. Lav., 9 maggio 1998, n. 4721, Cass., Sez. Lav., 23 maggio 2003, n. 8204, Cass., Sez. Lav., 14 gennaio 2005, n. 644).

[6] In sede penale, la parte civile eventualmente costituita (ai sensi degli artt. 74 e ss. cod. proc. pen.), sconta l’applicazione di regole molto più rigorose in tema di affermazione della responsabilità e quindi dell’obbligo risarcitorio, anche in caso di citazione del responsabile civile (83 e ss. cod. proc. pen.). Lo sviluppo attuale della giurisprudenza della Corte di legittimità, che sta annullando quasi tutte le sentenze di condanna, suggerisce una diversa opzione per la tutela risarcitoria delle vittime. Quindi con la necessità della tutela civilistica e/o previdenziale (Cass. Pen., Sez. IV, 04 novembre 2010, n. 38991).

[7] L’obbligo di adozione di tali misure sussisteva anche ove si ritenesse che al tempo non fossero ancora state dettate norme specifiche per la tutela dalle polveri di amianto e anche per le patologie che all’epoca non erano ancora ritenute causate dal minerale. Rispetto al rischio amianto, infatti, il bene giuridico protetto è la salute, e per proteggerlo erano state dettate ed imposte queste regole cautelari, che erano efficaci perché impeditive dell’evento, che si sostanzia anche nell’anticipazione dei tempi di latenza, e che comunque le stesse miravano ad evitare (Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988 ed ex multis).

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