Tre minorenni rom, di 17, 15 e 13 anni, tutti già noti alle forze dell’ordine, vengono sorpresi all’Aventino mentre si preparano a svaligiare appartamenti. Il diciassettenne, recidivo, è alla guida di un’auto a noleggio di grossa cilindrata – una circostanza che da sola dovrebbe far scattare ben più di un campanello d’allarme. All’interno del veicolo, l’intero arsenale del perfetto scassinatore: piede di porco, cacciaviti, chiavi inglesi, lastre. La missione è chiara, le intenzioni evidenti.
La risposta dello Stato italiano a questa scena? Una denuncia e l’affidamento a un “parente”.
Sipario.
Ma cosa significa, esattamente, affidarli a un “parente”? Significa, in molti casi, riconsegnarli alla realtà dei campi rom, dove la microcriminalità diventa spesso un’economia parallela e dove i minori vengono considerati risorse preziose proprio per la loro semi-impunità.
Significa riconsegnarli allo stesso ambiente che ha prodotto, tollerato o addirittura incoraggiato questi comportamenti.
Significa restituirli alla stessa famiglia che, con ogni probabilità, ha procurato l’auto a noleggio di grossa cilindrata che un minorenne non avrebbe mai potuto ottenere legalmente. Un’auto che, vale la pena sottolinearlo, è stata opportunamente sequestrata dalle forze dell’ordine.
Si tratta della stessa famiglia che non ha impedito al diciassettenne di guidare nuovamente senza patente, nonostante fosse già stato denunciato in passato proprio per questa stessa infrazione.
La stessa famiglia che non si è preoccupata di sapere dove fossero questi ragazzini nel cuore della notte mentre giravano per il quartiere Aventino con piedi di porco e cacciaviti.
È questo il concetto di rieducazione che guida il nostro sistema di giustizia minorile?
È questo il famoso superiore interesse del minore? E come si spiega che tutti e tre i giovani fossero già noti alle forze dell’ordine, eppure liberi di agire indisturbati nel cuore della notte?
Nel frattempo, i residenti dell’Aventino tornano a chiudere le serrature, a rinforzare le porte, ad acquistare sistemi di allarme sempre più sofisticati. In attesa della prossima “missione” di questi giovanissimi predatori urbani, che ora hanno imparato una lezione fondamentale: in Italia, se sei minorenne, puoi fare praticamente tutto senza conseguenze serie.
Il paradosso è evidente e amaro. Un sistema pensato per proteggere i minori più vulnerabili si trasforma nel loro più efficace strumento di autodistruzione. Un meccanismo concepito per evitare la criminalizzazione precoce diventa la via preferenziale per carriere criminali che iniziano sempre prima.
La criminalità organizzata ha compreso questo meccanismo meglio di chiunque altro. Non è un caso che i clan reclutino sistematicamente minori per le azioni più rischiose. Non è casuale che li addestrino a sparare, a trasportare droga, a compiere furti ed estorsioni. Il calcolo è semplice e cinico: minore età = minore rischio.
La narrazione dominante è intrappolata in un circolo vizioso di falsa compassione. Guai a stigmatizzare, guai a generalizzare, guai a dire che forse, in alcuni contesti come quello dei campi rom, il problema è anche culturale e strutturale.
Una realtà dove i minori vengono spesso avviati precocemente alle attività illecite, dove la scolarizzazione è vista come superflua, dove l’integrazione è ostacolata da barriere che vengono erette da entrambe le parti. Meglio il silenzio. Meglio l’autocensura. Meglio far finta che il problema non esista fino a quando non diventa ingestibile.
Ma il medico pietoso, è noto, fa la piaga purulenta.
Quanti altri furti dovranno subire i cittadini romani prima che qualcuno abbia il coraggio di ripensare un sistema chiaramente inefficace?
Quanti altri ragazzini di 13 anni dovranno essere iniziati al crimine sotto la protezione paradossale di leggi che favoriscono il loro sfruttamento da parte di adulti senza scrupoli?
La questione non riguarda più solo la sicurezza pubblica, ma la protezione stessa di questi minori. Ogni volta che il sistema giudiziario li rimanda nello stesso ambiente problematico senza interventi strutturali, fallisce nella sua missione primaria.
Ogni volta che ignoriamo i fattori culturali, sociali ed economici che contribuiscono a questi comportamenti, per timore di apparire politicamente scorretti, condanniamo questi stessi minori a un destino già scritto.
La vera discriminazione non sta nell’identificare il problema, ma nel rifiutarsi di affrontarlo con onestà intellettuale.
Se continuiamo su questa strada, tra qualche anno ritroveremo gli stessi nomi nelle cronache giudiziarie, ma non più come minorenni da proteggere, bensì come adulti ormai irrecuperabili per un sistema che non ha saputo intervenire quando c’era ancora tempo.
Nel frattempo, alle vittime di questi reati, ai cittadini che vedono violate le proprie case, non resta che la magra consolazione di sapere che, da qualche parte, un “parente” ha firmato un foglio per prendersi la responsabilità di minori che, con ogni evidenza, sono fuori controllo.
La domanda che il legislatore dovrebbe porsi non è come proteggere i minori dal sistema giudiziario, ma come proteggere i minori da un sistema che, nella sua attuale concezione, li condanna all’impunità oggi e al carcere domani.
Minori impuniti, Stato complice. Il fallimento del sistema.
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