La sicurezza digitale non è più un tema per esperti. Lo dimostra l’intervento del Capo della Polizia Vittorio Pisani al Festival dell’Economia di Trento, dove ha affrontato uno degli squilibri più rilevanti dell’era contemporanea: le app come WhatsApp, che usiamo ogni giorno, non sono sottoposte agli stessi obblighi di trasparenza e collaborazione giudiziaria delle compagnie telefoniche. Ed è un paradosso.
Pisani non ha usato mezzi termini. “Per TIM si può chiedere chi è l’intestatario di una sim. Per WhatsApp no”. Eppure l’effetto sulla comunicazione e sulla sicurezza è identico. Il problema, insomma, non è tecnico. È normativo. Le leggi non sono al passo con la realtà digitale.
Il punto centrale è proprio questo: l’evoluzione della criminalità è stata rapidissima, mentre il diritto arranca. Pisani l’ha definito “un vantaggio sleale”, quello dei cybercriminali. E ha ragione. Se i dati sono protetti in modo assoluto, anche chi compie reati gravi – pensiamo a pedinamenti, violenze, frodi – finisce per beneficiare di una tutela eccessiva.
Questo non significa cancellare la privacy. Significa trovare nuovi criteri. Pisani lo ha detto chiaramente: non si parte da zero, ma serve adattare strumenti e procedure. Anche per evitare abusi, come l’uso improprio di trojan e spyware, che possono diventare più invasivi dei problemi che intendono risolvere.
La proposta è quindi sensata: dare a WhatsApp gli stessi doveri di TIM non è un attacco alla libertà, ma un modo per garantire che libertà e sicurezza viaggino sullo stesso binario. Il Parlamento ascolterà?