
Washington, 2025.
Donald J. Trump è tornato. Con il suo secondo mandato presidenziale, conquistato con il 49,8% dei voti contro il 48,3% di Kamala Harris, l’ex magnate di New York ha riproposto lo slogan che lo rese celebre: “Make America Great Again.” Ma quel risultato, poco più che una spaccatura numerica del Paese, è davvero il “mandato” popolare che Trump proclama con ostinazione?
Dietro le bandiere e i comizi trionfalistici si nasconde un’altra realtà: un’America divisa, spaesata e meno creduta dal mondo. Dopo nove mesi di presidenza, la domanda resta intatta: quali promesse sono diventate fatti e quali sono evaporate nel vento?
L’Ucraina: la resa silenziosa
Trump aveva garantito di fermare la guerra in Ucraina “in 24 ore”, forte della sua amicizia personale con Vladimir Putin. La realtà è stata ben diversa. Il primo atto della nuova amministrazione è stato interrompere gli aiuti a Kyiv, lasciando l’Europa sola a fronteggiare l’aggressione russa.
Quando Volodymyr Zelensky è arrivato alla Casa Bianca, si è trovato di fronte a una scena surreale: il presidente americano e il suo vice, J.D. Vance, lo hanno accusato pubblicamente di ingratitudine. Poi, durante un incontro in Alaska , che Trump ha definito “Russia” confondendo i confini della geopolitica , l’ex magnate ha trattato Putin come un alleato sincero.
Il risultato? La Russia ha guadagnato terreno, l’Ucraina ha perso sostegno e Washington ha perso credibilità. L’illusione di fermare la guerra con un’amicizia personale si è infranta davanti ai carri armati russi e alle macerie di Kyiv.
Palestina: Gaza come Riviera
Un’altra promessa era la pace in Medio Oriente. Trump, con l’amico Benjamin Netanyahu, ha parlato di trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente.” Ma dietro le parole, il progetto appare come un cinico piano di speculazione: distruggere, espropriare, ricostruire e vendere.
La guerra continua, le vittime civili aumentano, e il linguaggio dei due leader suona più simile a un accordo immobiliare che a una visione di pace. “Mors tua, vita mea”: la sopravvivenza politica a costo della vita altrui.
Immigrazione: la caccia all’uomo
Se c’è un terreno dove Trump ha mantenuto le promesse, è la lotta all’immigrazione clandestina. Nel 2024 si stimavano circa 14 milioni di persone senza status legale negli Stati Uniti. Per affrontarle, Trump ha scelto Kristi Noem, ex governatrice del South Dakota, diventata nota più per aver raccontato di aver ucciso il proprio cane che per competenze in sicurezza.
Da segretaria alla Homeland Security, Noem ha militarizzato ICE. Agenti mascherati pattugliano le città, soprattutto le cosiddette “sanctuary cities.” Latinos, mediorientali, madri e padri vengono fermati per strada, ammanettati davanti ai figli, deportati in centri di detenzione come il controverso CECOT in El Salvador o inviati in Paesi terzi come l’Uganda.
Il giuramento di fedeltà alla Costituzione parla di “liberty and justice for all.” Ma oggi, quel “per tutti” sembra essersi dissolto.
Economia e Tariffe: il miraggio del protezionismo
Trump aveva promesso prezzi più bassi nei supermercati. Invece, ha rilanciato la guerra commerciale. Guidato da Peter Navarro, economista improvvisato che in passato si inventò persino un finto esperto, “Ron Vara,” per dare credibilità alle sue teorie, il presidente ha imposto tariffe a quasi tutti i Paesi. Tutti, tranne la Russia.
Chi paga davvero queste tariffe? Non i governi stranieri, ma gli importatori americani. E alla fine, i consumatori. Le stesse famiglie alle quali Trump aveva garantito spese più leggere si trovano oggi a fare i conti con scontrini più salati.
L’attacco al diritto di espressione
Le promesse elettorali e le affermazioni pubbliche dei leader politici non sono meri slogan: determinano anche la cornice culturale entro cui si esercitano le libertà civili. Quando un politico di alto profile, come Donald Trump, alimenta retoriche che tollerano o incoraggiano l’intimidazione, il rischio è concreto: la libertà di stampa e di espressione può trovarsi sotto pressione. Questo episodio recente, che ha coinvolto la sospensione del programma serale di Jimmy Kimmel, è emblematico di come meccanismi istituzionali e pressioni politiche possano convergere con effetti di vasta portata.
La vicenda si è svolta così: dopo alcune battute del conduttore su fatti di cronaca che avevano suscitato indignazione, la rete, dietro pressione del Presidente Americano, ha deciso la sospensione del programma; successivamente la direzione ha fatto marcia indietro e Kimmel è stato reintegrato, ma non senza conseguenze e divisioni nel sistema delle affiliazioni televisive. Alcuni grandi gruppi di affiliazione hanno rifiutato di mandare in onda la puntata al suo ritorno, mostrando quanto la pressione mediatica e politica possa riverberare sulle scelte commerciali delle emittenti.
A preoccupare è stato anche il ruolo assunto dalle istituzioni di regolamentazione: dichiarazioni del presidente della commissione federale per le comunicazioni, interpretate da molti come fredde minacce nei confronti dei broadcaster, hanno innescato un dibattito sul confine tra tutela dell’ordine pubblico e censura indiretta. Organizzazioni per i diritti civili e quotidiani di opinione hanno immediatamente sottolineato come tali interventi possano creare un precedente pericoloso, in cui la coercizione politica si traduce in autocensura aziendale.
Questo episodio è rivelatore per più motivi. Innanzitutto mette in luce la fragilità delle garanzie istituzionali quando autorevoli esponenti politici o regolatori agitano la possibilità di sanzioni economiche o burocratiche: le reti e gli inserzionisti, davanti al rischio reputazionale o operativo, possono preferire scelte conservative che comprimono la libertà espressiva. In secondo luogo, illustra come la polarizzazione politica e la cultura dello scontro personale possano spingere figure pubbliche , incluse quelle con un comportamento apertamente provocatorio o narcisistico a tentare di modellare il panorama mediatico a proprio favore.
La Costituzione americana sancisce il primo emendamento come fondamento della libertà di parola e di stampa; ma il rispetto concreti di tali principi non è automatico: dipende anche da attori privati (reti, affiliati, investitori) e pubblici (regolatori, istituzioni) che, nelle loro interazioni, possono erodere quel dettato costituzionale attraverso pratiche di fatto. Il caso recente dimostra che la protezione del dibattito pubblico richiede non soltanto regole formali, ma una cultura istituzionale e aziendale che resista alle pressioni politiche.
La reazione dell’opinione pubblica e di parti rilevanti del mondo degli affari è stata significativa: proteste, richieste di chiarimenti agli organi di amministrazione delle aziende coinvolte e interventi da parte di associazioni per la libertà di stampa hanno contribuito a riaccendere il dibattito e, in alcuni casi, a far riconsiderare decisioni prese in fretta. Questo dimostra anche un altro punto importante: la società civile e i meccanismi di controllo possono ancora funzionare come contrappeso, ma soltanto se attivati e sostenuti.
Non va sottovalutata infine la dimensione politica dello scontro: quando un leader pubblico usa un linguaggio che polarizza e personalizza gli attacchi, trasformando il dissenso in offesa personale o in motivo di punizione, si attenua lo spazio per il confronto democratico. La democrazia sana non teme la satira, la critica o il dissenso; al contrario, li considera parte integrante del dialogo pubblico. Qualsiasi tendenza a limitare questi spazi per mezzo di pressioni istituzionali o economiche rappresenta un campanello d’allarme.
In conclusione: la vicenda non è soltanto il racconto di una sospensione televisiva e di una successiva retromarcia. È un avvertimento sulla fragilità delle garanzie democratiche quando la politica strumentalizza la regolazione dei media, e sulle conseguenze che questo ha sulla libertà di espressione dei cittadini. Difendere questi diritti richiede vigilanza, trasparenza nelle decisioni aziendali e istituzionali, e un’opinione pubblica pronta a opporsi alle derive autoritarie, qualunque sia il loro autore. La libertà di parola è un pilastro fragile: curiamolo con serietà e responsabilità.
Un Governo di Fedelissimi
La differenza rispetto al primo mandato è lampante. Nel 2017 Trump si circondò di professionisti, generali, manager con esperienza. Nel 2025, invece, ha scelto fedeltà al posto della competenza.
Ventitré membri della sua amministrazione provengono da Fox News: non giornalisti investigativi, ma conduttori e opinionisti televisivi. Uno è diventato segretario alla Difesa. Un’ex commentatrice di “The Five” è oggi procuratrice del Distretto di Columbia. Robert F. Kennedy Jr., noto per le sue posizioni no-vax, guida la Sanità. Linda McMahon, ex CEO della WWE, è stata nominata segretaria all’Educazione.
Il governo appare più come un cast televisivo che come una squadra di governo.
La Città sulla Collina: un sogno infranto
Ronald Reagan amava definire l’America “la città splendente sulla collina,” modello di speranza e democrazia per il mondo. Nove mesi dopo il ritorno di Trump, quella città sembra un’ombra.
L’Europa diffida, la Cina avanza, e gli Stati Uniti appaiono isolati, più spettatori che leader. L’illusione di una nuova “età dell’oro” si è trasformata in un tempo di disincanto.
Eppure, resta una certezza: l’America ha la forza di risollevarsi. Ma non accadrà finché le promesse resteranno parole e le illusioni sostituiranno le politiche. Servirà un miracolo, o più semplicemente, la volontà di un popolo che non ha mai smesso di essere grande.