Saggio Biografico non autorizzato di Antonio Sannino

Il Prefetto Arturo Bocchini è stato nominato Capo della polizia quindici giorni prima del quarto attentato a Mussolini; troppo poco tempo per chiamarlo a rispondere.
Si potevano dire e si dicevano tante cose ma non che fosse un fervente fascista, prendeva in giro i gerarchi confessando di essere fascista da quando era in fasce.
Non sono in pochi ad accreditargli un moderato scetticismo verso il regime, e sono in tanti a riconoscere un valente funzionario con una solida personalità; rispecchia il lato migliore dell’alta dirigenza dello Stato.
Non è tipo dal quieto vivere, o il Fouché al servizio del Napoleone romagnolo.
La leale collaborazione con il massimo e legittimo rappresentante del Governo è un dovere verso le istituzioni e non servile compiacenza al capo di un partito.
Non è un comportamento farisaico ma l’attuazione di una linea di pensiero che contempla due principali presupposti: lo Stato di Diritto e il Principio di Legalità.
Mussolini sa tutto dei suoi trascorsi, consiglieri interessati più al prestigioso incarico che ad altro l’hanno informato offrendogli qualche malignità: il Prefetto di Bologna aveva contrastato fortemente il ras fascista Leandro Arpinati, i cui sodali volevano defenestrarlo in senso fisico!
Arturo Bocchini è un buon conoscitore di uomini, non si fida di chi lo incensa ma di chi è intellettualmente onesto che gli dice le cose per come stanno veramente; abitudine del tutto inconsueta nella turba di adulatori, mestatori e questuanti che lo circondano.
Il Capo della Polizia ha il quadro completo della situazione quando si reca a Palazzo Chigi per il saluto di rito.
Varcata la soglia del maestoso ufficio viene investito da un “buon giorno eccellenza”, Bocchini risponde “buon giorno Presidente” dimenticando di fare il saluto romano, ma è troppo tardi per rimediare.
Il Presidente del Consiglio dei ministri non è loquace, misura l’intelligenza di chi gli sta di fronte, dal numero di parole che deve spendere per farsi capire.
Con Arturo Bocchini ne consuma pochissime: la classe politica fascista ha fallito; è categorica l’esigenza di restituire autorevolezza e prestigio alle Istituzioni.
Ciò deve valere per tutti e prima di tutti chi si proclama fascista o amico del regime.
Bocchini è sorpreso dal tono franco e deciso di Mussolini che vuol dire garanzia della massima copertura politica. Viene cancellato ogni tentativo di sottomettere la polizia al partito; dopodiché tolleranza zero con i ras di ogni livello e grado che alla legalità preferiscono la mistica di regime che consente qualche prepotenza e qualche arricchimento in più.
Per il responsabile della Direzione Generale di Sicurezza Pubblica è importante; la lotta si svilupperà su due fronti: il terrorismo antifascista che vuole morto Mussolini e i gerarchi infingardi che pullulano nel Movimento; le difficoltà superano le note liete.
Apre subito le ostilità: lo disturbano l’arroganza becera dei ras di provincia, la retorica grossolana, le parate in orbace, le camarille di palazzo. Vuole invece affermare il Principio di Legalità come cardine per l’imparzialità e la credibilità della funzione pubblica; che ai fascisti estremisti non piace nemmeno un poco.
Dunque, se le nomine extra ruolo sono state possibili per prefetti e Questori in camicia nera non lo sono più; l’unico parere spetta al Direttore Generale. I gerarchi accusano il colpo, il segretario del PNF, Augusto Turati, cerca di correre ai ripari ma il dado è tratto!
La situazione generale del paese mostra criticità importanti, Bocchini le illustra a Mussolini, chiedendo un rafforzamento della polizia, ottiene solo di aumentare a cinquanta milioni il fondo segreto per spese confidenziali.
L’attacco al cuore dello Stato si sviluppa con una serie di attentati alle più alte cariche istituzionali causando morti e feriti a inermi cittadini.
Quei colpi di pistola contro Mussolini a Bologna sono stati un campanello d’allarme, gli interventi di riordino della polizia marciano a rilento, i cani sciolti dell’opposizione all’estero alzano la posta a colpi di tritolo e bombe artigianali.
Il Capo della Polizia è tollerante con gli emissari, portano stampa clandestina per i militanti. Oppure quaranta chili di tritolo pronti a confezionare bombe ad alto potenziale.
Anche alla frontiera ci sono buchi di vigilanza, Ernesto Rossi capo di Giustizia e libertà tra 1926 e il 1930 attraversa il confine per ben 6 volte senza documenti e con nessuno che gli chieda qualcosa.
Il 12 aprile 1928 il Re e il Primo Ministro si accingono ad inaugurare la Fiera di Milano, pochi minuti prima del loro arrivo esplode una bomba di inaudita potenza uccidendo 20 cittadini e ferendone un centinaio; è mancato un soffio alla decapitazione dei vertici dello Stato e del regime.
Sul posto arrivano alti ufficiali dei carabinieri, l’ufficio investigativo della milizia fascista, il capo ufficio istruzione del tribunale speciale.
La Direzione Generale della polizia viene tenuta ostentatamente in disparte. L’obiettivo è trovare dei colpevoli da fucilare al più presto, la milizia cattura quattro comunisti da offrire in sacrificio al Duce del Fascismo.
Il Prefetto di Milano vista la piega dei fatti chiede la presenza sul posto del Direttore Generale della sicurezza pubblica accompagnato dal Capo della Polizia politica, Guido Leto; trovano il caos investigativo.
I vertici dei reali carabinieri e della milizia se la prendono a male, non nascondono il fastidio verso gli intrusi.
In maniera intimidatoria avvertono che Mussolini in persona ha manifestato l’interesse per una rapida conclusione e una altrettanto fulminea condanna a morte dei terroristi. Bocchini ha capito benissimo dove si vuole andare a parare: far passare i quattro malcapitati per capri espiatori.
Rifiuta di avallare la caccia alle streghe comuniste; gli indizi di colpevolezza sono inconsistenti e quindi vanno rilasciati.
Nel 1933 Bocchini viene insignito del titolo di Senatore del Regno, cui non dà la minima importanza e non mette piede nell’Aula senatoriale, teme qualche sorpresa.
Intanto i militanti arrestati si trasformano in massa a confidenti di polizia. Mussolini non crede alle rivelazioni dei pentiti, ma deve ricredersi quando il Capo della Polizia gli comunica l’arresto en bloc di tutti i dirigenti di Giustizia e Libertà grazie ad un pentito di livello.
Nel redigere il comunicato stampa preparato da Senise il Duce all’insaputa di tutti, appone di suo pugno un falso acronimo: OVRA!
Segretissima perché inesistente e mai esistita: l’ignoranza diventa mistero.
Bocchini stesso è preso alla sprovvista. Si espande la megalomania del grande Dittatore, il suo amore patologico per le polizie segrete. Vede organismi tentacolari che avvolgono in un gigantesco reticolo quaranta milioni di italiani.
Un gran moloch invisibile come un fantasma, veloce come una saetta, inesorabile come la notte. Da giovane scriveva qualche racconto: al posto in cui è arrivato può permettersi ben altro. Scatena la fantasia nel creare falsi acronimi dal suono stridulo e cimiteriale. Quando scopre che anche il New York Times prende l’OVRA seriamente si meraviglia e si diverte come un pazzo.
Nel 1938 la dittatura è consolidata, attraversa la fase del consenso popolare tanto da poter estendere anche in Italia le leggi raziali della Germania nazista.
Sono state più una pusillanime concessione alla retorica del patto d’acciaio che una convinta scelta politica.
La grande razzia dell’Antico Popolo si dispiega con ferocia nei paesi sotto la dominazione del Terzo Reich. Il Capo della polizia è contrario all’odioso provvedimento, non ne fa mistero nelle riunioni con i più fidati collaboratori, Guido Leto e Carmine Senise, ma è incalzato dai gerarchi fascisti.
Decide comunque di non dar luogo all’ordine di Mussolini di approntare campi di concentramento.
Aiuta segretamente gli ebrei in difficoltà, pensa che quelle leggi, oltre che ripugnanti, siano controproducenti: molte personalità dell’ebraismo sono buoni fascisti, è contrario ai pregiudizi, anche tra gli antifascisti ci sono persone degne di stima.
Riceve spesso i rappresentanti delle comunità israelitiche, non tralascia di far loro capire l’intensificarsi delle pressioni tedesche, con il sottinteso di approntare contro misure.
Nel suo studio al Viminale sono ospiti De Gasperi, don Sturzo, Gaetano Salvemini, privato dell’insegnamento universitario, perché contro il regime.
Personaggi come Casati, Bonomi non hanno nulla da temere, spesso sono suoi ospiti, come il professor Caronia legato al movimento “Alleanza nazionale”, fondato da Benedetto Croce.
Le discussioni vertono sulla situazione del Paese e terminano con la richiesta del Professore in favore di qualche antifascista, come Vinciguerra che si vede ridurre molti anni di reclusione.
Nelle questure e nei commissariati passa la linea del Capo della Polizia, il cui autorevole ascendente sul personale è elemento di coesione operativa. Ovvero, si trovano mille cavilli e sotterfugi per aiutare gli ebrei. Si dispiega l’arte della burocrazia: la firma illeggibile, la pratica che non si trova le generalità mascherate e via di seguito.
I nazisti sono ormai convinti che non si tratta di casualità, ma di una precisa indicazione politica di tipo strategico.
La polizia è inaffidabile, se ne accorge anche l’Ambasciatore nazista Mackensen, lamentandosi direttamente con Mussolini. Bocchini ormai è nel cerchio della diffidenza, sta tirando troppo la corda, che rischia di spezzarsi: deve allentare la tensione con il potente alleato, qualcosa bisogna pur concedergli; firma l’accordo per la nomina di due funzionari di polizia a Roma e a Berlino.
Accordo che in pratica non avrà mai seguito.
Il braccio destro di Hitler, Reinhard Heydrich, protesta perché alla conferenza di Bucarest tra i paesi sotto occupazione tedesca è stato inviato un anonimo funzionario.
Avrebbe voluto una presenza più autorevole, come quella del vice Capo della polizia politica, Guido Leto: lo scopo è dare maggior peso alla delegazione italiana e raggiungere la maggioranza dei consensi e far passare le proposte tedesche: è proprio quello che Bocchini non vuole fare.
Guido Leto non si muove da Roma, il funzionario nominato è confermato perché farà bene il suo dovere.
I tedeschi provano ad aggirare l’ostacolo, rivolgendosi direttamente al viceministro dell’Interno, Buffarini Guidi, per l’invio in Germania di funzionari di polizia per studiare la costruzione e la gestione dei campi di concentramento.
Il gerarca caldeggia la questione alla Direzione Generale: il risultato non cambia. i funzionari servono in Italia, date le esigenze dello stato di guerra, nessuna delegazione partirà per la Germania.
Il caso più eclatante si crea con l’attività clandestina della Delasem (Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei) vista malissimo dai nazisti. Riceve denaro dall’estero per dare soccorso e aiuti ai correligionari è farli espatriare illegalmente.
Arturo Bocchini sa tutto e più di tutto, ma non fa niente per ostacolare, anzi il sommesso passaparola al personale conferma l’opera di assistenza ai rifugiati ed agli ebrei.
Il Capo della polizia, senza mai opporsi apertamente trova ogni possibile argomento per ostacolare i piani nazisti e, di fatto, agevolare gli ebrei e gli antifascisti. Autorità religiose israelitiche raccontano di essere cadute in mani nazifasciste che avevano portato via quantitativi d’oro, la polizia aveva recuperato l’oro e sventata la deportazione in Germania.
La guerra volge al peggio, il Direttore Generale della sicurezza pubblica annuncia a Mussolini che nella catastrofica ipotesi di una guerra non può garantire il comportamento degli apparati di sicurezza: anzi non sarebbe una sorpresa se, in caso di disordini, si sollevassero insieme alla popolazione.
Capisce di aver persa la partita, l’ultima opzione sarebbe un “colpo di stato”: arrestare il Dittatore e tutti i dirigenti fascisti favorevoli alla guerra.
Ne parla con Augusto Turati, che da tempo è passato su posizioni anti-mussoliniane.
Altri segnali non arrivano, i vertici politici e militari dello Stato tacciono, in alto loco si pone una certa fiducia nella buona stella del Duce del fascismo.
Arturo Bocchini è stato lasciato solo, le sue carte le ha giocate tutte anche con la vita: muore il 22 novembre del 1940. Nella cassaforte del suo ufficio lascia venti milioni di lire (una trentina di miliardi di allora).
La gran parte dei suoi averi li destina in beneficenza, era stato severo e onesto con tutti.
È vero che aveva cercato di convincere suo fratello ad iscriversi al Partito Nazionale Fascista, ricevendone un sonoro NO!
Ma per non essere accusato di nepotismo aveva proibito a parenti e amici di accettare un qualsiasi incarico pubblico.
Scoppia la bolla ideologica dell’epurazione: miete vittime falsi “Ovrini”, mentre i giudici di merito statuiscono “…la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (Arturo Bocchini) ha mantenuto una sostanziale correttezza e dopo l’otto settembre (1943) le direttive impartite a funzionari e agenti e da questi doverosamente eseguite erano congrui alle situazioni in essere. È stata pronta e senza titubanze la collaborazione con i servizi segreti alleati e con la Resistenza…”. Del comportamento onesto, meritorio e coraggioso di Arturo Bocchini non vi è traccia nella improbabile e abborracciata sentenza del Consiglio di Stato, emanata il 27 febbraio 1947 per la decadenza post mortem dalla carica di Senatore del Regno.