Quando la finzione diventa realtà: riflessioni di uno scrittore sull’America che cambia

La via verso la dittatura secondo l’intelligenza artificiale

Mancano ormai poche settimane all’uscita del mio primo libro, “The Meeting” (L’incontro). È un traguardo che attendo con trepidazione, costruito con fatica e passione, tra le ore rubate al mio lavoro quotidiano, quello che ancora mi permette di pagare i conti e le giornate trascorse davanti al computer, dove l’immaginazione si trasforma in parola. Scrivere non è solo un mestiere: è un atto di sopravvivenza, un bisogno di capire il mondo e, forse, di avvertirlo.

Eppure, mentre il primo libro è ormai in dirittura d’arrivo, mi ritrovo immerso nella stesura del secondo, un progetto che si muove tra realtà politica e fiction, dove l’immaginazione deve costantemente fare i conti con i fatti. Per costruirlo, consulto ogni giorno dati, statistiche, documenti, rapporti ufficiali, ma soprattutto, dialogo con un alleato che oggi è diventato lo strumento più potente di conoscenza mai creato: l’Intelligenza Artificiale.

Sì, quella stessa IA che molti ancora osservano con diffidenza e curiosità, ma che in silenzio ha già superato Google come principale mezzo di ricerca del pianeta. La chiamiamo “assistente”, ma nel profondo sappiamo che, un giorno non troppo lontano, prenderà il nostro posto. Sostituirà la nostra voce, le nostre mani, il nostro pensiero. Tutto ciò che oggi chiamiamo “attività umane” diventerà un ricordo.

Qualche settimana fa ho posto alla mia IA una domanda semplice ma terribilmente scomoda:
“Cosa farebbe un presidente se volesse diventare un dittatore?”

Io non sono uno storico né un esperto di scienze politiche, ma il mio “assistente” lo è o, per lo meno, possiede una conoscenza enciclopedica della storia umana. Le sue risposte mi hanno lasciato senza parole.

Mi ha spiegato che un presidente, per compiere quel salto di qualità verso l’autoritarismo, dovrebbe creare le condizioni che lo giustifichino. Non potendo trovarle nella realtà, le dovrebbe inventare.

Il primo passo, mi ha detto, sarebbe dichiarare uno stato d’emergenza. Basterebbe un pretesto: una crisi economica, una presunta insurrezione popolare, proteste di piazza orchestrate da “gruppi estremisti”. O, ancora, un’invasione di immigrati accusati di nascondere terroristi o trafficanti di droga. Qualsiasi situazione utile a convincere il popolo che il nemico è ovunque, e che solo il Presidente può salvarlo.

In seguito, potrebbe sostenere che il Congresso non è più in grado di funzionare, chiedendo poteri straordinari per “ristabilire l’ordine”. Da quel momento, il passo successivo sarebbe limitare la libertà di stampa e di espressione: censurare articoli, oscurare emittenti scomode, sostituire il pluralismo con un unico megafono mediatico,  il proprio.

Ecco allora il Presidente trasformarsi nel narratore unico della verità nazionale. Le voci discordanti diventano “traditori”, “fake news”, “nemici del popolo”. La giustizia, una volta indipendente, viene colonizzata: al vertice del Dipartimento di Giustizia siede ora qualcuno fedele non alla Costituzione, ma al leader. Gli avversari politici vengono indagati, processati, distrutti pubblicamente e finalmente incarcerati, fatti sparire o peggio.

Sul piano della sicurezza, il Presidente ordina la federalizzazione della Guardia Nazionale, la mobilitazione dei Marines, la presenza militare nelle strade “per garantire la sicurezza dei cittadini”. Ma i cittadini da cui ci si difende non sono altri che… i cittadini stessi.

A quel punto il Parlamento diventa un teatro di ombre. Il Congresso esiste ancora ,fisicamente, ma è svuotato di potere, ridotto a un rituale decorativo. Le regole cambiano, le voci critiche vengono zittite, i giudici sostituiti con figure leali. Il potere legislativo perde senso, quello giudiziario diventa servile, e l’esecutivo domina su tutto.

Non c’è bisogno di sciogliere il Congresso: basta renderlo irrilevante.

E quando il Presidente invoca infine l’Insurrection Act, sospendendo l’Habeas Corpus, la Costituzione stessa smette di esistere. Le strade si riempiono di uniformi, il dissenso diventa reato, e chiunque può essere arrestato o deportato senza processo. La democrazia, un tempo inviolabile, muore senza spari: muore per asfissia, nel silenzio complice dell’abitudine.

Incredibile, vero? Sembrerebbe il materiale di un romanzo distopico.
Eppure, mentre scrivevo queste pagine, quelle del mio libro, mi sono reso conto di qualcosa di inquietante: non stavo più inventando nulla.

La storia che stavo immaginando stava già accadendo sotto i miei occhi, sotto i nostri occhi, ogni giorno, da mesi. L’America che descrivo nella finzione inizia a rispecchiare l’America reale. E allora la domanda diventa inevitabile:

Quando la realtà imita la letteratura, chi dei due sta davvero scrivendo la storia?

Oggi, il “film” che si sta girando in tempo reale negli Stati Uniti non è più un esercizio narrativo, ma un esperimento politico in atto. Ogni attacco alla stampa libera, ogni delegittimazione del Congresso, ogni insulto alla magistratura, ogni uso strumentale delle forze armate: tutto questo somiglia terribilmente al copione di quella conversazione tra me e la mia IA.

Se il sistema dei “checks and balances” non reggerà la pressione, se il Congresso non ritroverà la sua dignità, se i cittadini non alzeranno la voce, se i militari dimenticheranno che il loro giuramento è verso la Costituzione  e non verso un uomo, allora la mia seconda opera non sarà più una storia di fantasia. Sarà una cronaca.

Una cronaca americana

E così mi chiedo, e chiedo ad ognuno di voi:

Chi proteggerà la Costituzione, quando sarà la Costituzione stessa a non poter più proteggere noi?

Forse nessuno.

O forse qualcuno, un giorno, troverà il coraggio di dire basta.

Nel frattempo, noi scrittori, o giornalisti, persone di pensiero ed azione,m continueremo a fare ciò che possiamo: raccontare. Perché scrivere è ricordare, e ricordare, oggi più che mai, è un atto di resistenza e coraggio.

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