Avvocati sempre più “dipendenti”? Il futuro incerto della  riforma forense tra monocommittenza e svilimento dell’autonomia

In un’epoca in cui la flessibilità sembra essere diventata la cifra dominante del lavoro, anche  l’Avvocatura si trova a fare i conti con dinamiche che, fino a qualche anno fa, sembravano  appartenere ad altri contesti professionali. È il caso, sempre più evidente, della monocommittenza,  che da fenomeno marginale si sta trasformando in una realtà consolidata e strutturale. Ma la  recente proposta di riforma della legge professionale forense, che avrebbe dovuto affrontare con  coraggio e visione queste nuove complessità, rischia di naufragare in una soluzione di  compromesso. 

A oggi, l’iter legislativo appare sospeso su un crinale ambiguo: secondo quanto riportato in  un’intervista rilasciata da Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense, il Governo  avrebbe intenzione di far confluire la riforma in un testo normativo unico per tutte le professioni  regolamentate e non. Un approccio che, sebbene apparentemente ispirato da logiche di  semplificazione, rischia di annacquare le specificità della professione forense, già fortemente  provata da anni di riforme parziali, precarizzazione diffusa e crescenti difficoltà economiche. 

Una riforma che nasce fragile 

La riforma dell’ordinamento forense non nasce sotto una buona stella. Presentata come una  risposta alle urgenze del presente – tra cui l’invecchiamento della professione, la crisi del ricambio  generazionale, il crollo dei redditi medi, la femminilizzazione senza parità economica – sembra  invece aver imboccato la via della timidezza normativa. Non solo manca una visione organica, ma la  scelta di adottare una legge “omnibus” per tutte le professioni lascia l’amaro in bocca a chi da anni  denuncia le derive lavoristiche della professione e chiede una normativa capace di riconoscerne il  ruolo costituzionale. 

Perché l’Avvocatura, ricordiamolo, non è una mera attività professionale tra le tante: è presidio di  democrazia, garanzia di tutela effettiva dei diritti, interlocutore naturale della magistratura e della  pubblica amministrazione. Assimilarla meccanicamente ad altri ordini professionali – senza  considerare il suo radicamento nella Costituzione e nella funzione pubblica – non è solo una scelta  tecnica. È una scelta politica, che parla di una progressiva marginalizzazione del ruolo dell’avvocato  nella società contemporanea. 

Monocommittenza: tra autonomia e subordinazione mascherata 

L’inserimento, per la prima volta in una legge forense, della figura del professionista  monocommittente rappresenta il tentativo, per certi versi meritorio, di dare una veste giuridica a  una realtà già largamente diffusa, ma finora ignorata o rimossa. Secondo gli ultimi dati CENSIS,  circa 30.000 avvocati lavorano stabilmente per un solo committente, spesso sotto forma di  collaborazione continuativa. Un numero che rappresenta il 15% della categoria, in costante crescita. 

Non si tratta solo di giovani alle prime armi in cerca di stabilità: nel 2022, l’età media dell’avvocato  monocommittente era già di circa 39 anni, segno che questa modalità lavorativa è diventata una  scelta – o meglio una necessità – anche per i professionisti più esperti. La monocommittenza offre  infatti una parvenza di sicurezza: un reddito prevedibile, relazioni stabili con uno studio o un ente,  una tregua dalla guerra quotidiana per acquisire e mantenere la clientela. 

Ma questa apparente sicurezza ha un prezzo. L’art. 18 della proposta di riforma, pur qualificando il  rapporto come prestazione d’opera intellettuale e non come lavoro subordinato, introduce vincoli  che richiamano in modo esplicito la disciplina del lavoro dipendente. Obbligo di esclusiva, 

limitazione alla costruzione della clientela personale, patto di non concorrenza post-collaborazione  fino a due anni. Elementi che restringono fortemente l’autonomia professionale, senza però  concedere le tutele del lavoro subordinato. 

Collaboratori o dipendenti senza tutele? 

Il vero nodo è tutto qui: in un’asimmetria strutturale tra doveri imposti e diritti negati. I  professionisti monocommittenti si trovano in una posizione di dipendenza economica e  organizzativa che in molti altri settori giustificherebbe l’applicazione delle tutele lavoristiche  (malattia, maternità, ferie, contributi, licenziamento). Ma per loro non esiste alcuna di queste  garanzie. 

Il contratto può essere interrotto con un semplice preavviso, e nulla impedisce la reiterazione  infinita di collaborazioni “a termine”. Il patto di non concorrenza, benché sottoposto a limiti  temporali e spaziali, rappresenta un ulteriore ostacolo alla ripartenza in caso di interruzione del  rapporto. E persino sul compenso si registra una notevole vaghezza normativa: la legge parla di  “compenso congruo”, ma rimanda a una normativa secondaria non ancora definita la  determinazione dei parametri minimi. 

In sostanza, il rischio è quello di una nuova figura ibrida, che ha tutti i doveri del dipendente e  nessuno dei suoi diritti. Un “quasi-lavoratore” che non può organizzarsi come imprenditore, né può  rivendicare la protezione del lavoro subordinato. Una zona grigia in cui la dignità professionale  viene compressa, e con essa anche la qualità del servizio offerto ai cittadini. 

L’Avvocatura come bene pubblico 

A preoccupare non è solo l’impatto individuale della riforma su migliaia di professionisti, ma anche  il significato culturale e politico che essa veicola. Trattare l’Avvocatura come una qualsiasi categoria  professionale significa dimenticare che l’avvocato non è solo un fornitore di servizi, ma un soggetto  

che partecipa alla realizzazione della giustizia. Il rapporto fiduciario con il cliente, la libertà e  l’indipendenza che devono connotare l’esercizio della professione, il dovere di difendere anche gli  ultimi e i dimenticati: tutto questo non si misura in ore lavorate o in pacchetti di clienti ceduti. 

Ogni tentativo di ridurre la professione a un rapporto contrattuale di tipo economico-finanziario  rischia di svuotare di senso l’essenza stessa dell’avvocatura. Se la legge non è in grado di  riconoscere questa dimensione pubblica, di tutelare l’autonomia del professionista e di garantire  condizioni dignitose a chi sceglie (o è costretto) a operare in regime di monocommittenza, allora  non siamo di fronte a una riforma. Siamo di fronte a un arretramento. 

Una riforma da ripensare, con coraggio 

La scelta di ricondurre la riforma forense all’interno di una legge generale per tutte le professioni  può forse trovare una giustificazione tecnica, ma rappresenta una sconfitta politica e culturale. Le  professioni non sono tutte uguali. E se è vero che il diritto evolve, è altrettanto vero che ogni  evoluzione va governata con consapevolezza, ascoltando chi ogni giorno vive le contraddizioni del  sistema. 

Serve una riforma vera, che riconosca le trasformazioni del lavoro legale senza accettarle  acriticamente. Una legge che metta al centro la dignità del professionista, la tutela  dell’indipendenza, la qualità della difesa. Che non lasci i giovani avvocati soli di fronte al bivio tra  sfruttamento e abbandono della professione. Che non sacrifichi l’autonomia sull’altare della  flessibilità. Che non trasformi l’avvocato in un lavoratore “a chiamata”, privo di protezioni e di  futuro. 

L’alternativa non è tra modernità e conservazione, ma tra una riforma che guarda al futuro con  visione e una normativa che cristallizza le disuguaglianze. Il tempo per scegliere non è molto. Ma è  ancora possibile cambiare rotta.

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