Bruxelles punta su una gestione centralizzata, i territori difendono il principio di prossimità.

La politica di coesione europea si trova oggi davanti a un bivio che non è soltanto tecnico o finanziario, ma profondamente politico.
Da un lato la Commissione europea sembra orientata a rafforzare modelli di gestione centralizzata, sullo stile del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con obiettivi vincolanti, scadenze serrate e un controllo diretto delle risorse da parte di Bruxelles.
Dall’altro, le Regioni rivendicano con forza il principio che ha reso unica la politica di coesione: la capacità di avvicinare l’Europa ai territori, lasciando che siano proprio le comunità locali a decidere come utilizzare i fondi per ridurre i divari e stimolare lo sviluppo.
La visione della Commissione ha una logica precisa: concentrare le decisioni per rendere più rapida ed efficiente l’attuazione dei programmi, evitare frammentazioni e garantire un controllo puntuale sui risultati. L’esperienza del PNRR, per molti versi, è stata vista come un modello capace di rispondere in tempi rapidi alle emergenze generate dalla pandemia. Tuttavia, il rischio di questa impostazione è quello di ridurre la coesione a un semplice esercizio contabile, dove la priorità diventa rispettare target e milestone, più che incidere in profondità sulla vita economica e sociale delle aree meno sviluppate.
Le Regioni, al contrario, sottolineano che la forza della politica di coesione è sempre stata il suo carattere decentrato.
Non è un caso che il Trattato Europeo di Funzionamento parli esplicitamente di “coesione economica, sociale e territoriale”: parole che rimandano alla diversità dei territori, ai loro bisogni specifici, alla necessità di politiche su misura. Centralizzare significherebbe rischiare interventi calati dall’alto, standardizzati, incapaci di leggere le complessità locali. Le Regioni rivendicano di essere il livello istituzionale più vicino ai cittadini, quello in grado di trasformare le risorse in politiche concrete, che tengano conto delle vocazioni produttive, delle fragilità sociali e delle opportunità di ciascun territorio.
La contrapposizione, dunque, è evidente e va oltre la dimensione tecnica: riguarda la legittimità stessa della coesione. Una politica nata per riequilibrare i divari interni all’Unione non può essere governata con lo stesso schema dei grandi piani nazionali. Se le Regioni vengono ridotte al ruolo di meri esecutori, la coesione perde la sua identità originaria, quella di costruire dal basso una crescita più equa e inclusiva. Allo stesso tempo, è innegabile che l’Europa abbia bisogno di maggiore efficacia, di sistemi di monitoraggio solidi e di strumenti di controllo più stringenti, perché la lentezza o la cattiva gestione dei fondi rischiano di minare la credibilità dell’intero progetto europeo.
La partita che si apre con la programmazione post-2027 sarà quindi decisiva. Da una parte c’è la spinta verso l’accentramento, dall’altra la richiesta di confermare il principio di governance multilivello. Una mediazione possibile potrebbe essere quella di rafforzare i meccanismi di controllo e di verifica a livello europeo, ma senza esautorare le Regioni dalla responsabilità della programmazione e dell’attuazione. Solo così la coesione potrà restare fedele alla sua missione originaria, quella di ridurre le disuguaglianze territoriali e costruire uno sviluppo sostenibile, mantenendo al centro i cittadini e i loro territori.
Il dibattito è aperto, e non riguarda soltanto la gestione di miliardi di euro: in gioco c’è la credibilità della solidarietà europea, la capacità dell’Unione di non lasciare indietro nessuno e di dimostrare che la coesione non è una formula astratta, ma un progetto concreto per rendere più unita e più giusta l’Europa.